Mi chiamarono Aurin yr Jasel el Redon, ventidue anni or sono, per marchiare la
mia esistenza col nome dei miei avi e inchiodarmi a un destino che non ho
scelto. In lingua Alzhedo “Aurin”
significa custode di sogni, anche se pochi ricordano ancora le simbologie
associate all’alfabeto Thorass.
Sono nata nella Perla delle Sabbie, dove il caldo arido di un deserto troppo
antico rende le persone subdole e assetate di veleno, prosciugate fin nel
midollo e private dei valori che fanno di un uomo qualcosa di più di un
burattino in cerca di uno sfarzoso palcoscenico.
Sono una figlia di quella terra splendente
baciata dal sole del sud, un fiore troppo selvatico sbocciato tra dune
polverose, ma non vi è traccia sulla mia pelle di quel retaggio. Il mio sangue
affonda da qualche parte nel lontano nord, e questo mi ha aiutata a non
sentirmi mai davvero parte del mondo che ho tanto odiato.
La mia vera nascita non è stata la prima:
quella è stata solo una maledizione.
Ho imparato a vivere il giorno in cui ho infranto il velo damascato di
ipocrisia, e scavalcato prepotentemente le barriere auree della mia gabbia
personale.
Mi chiamai io, questa volta, “Aurin”
e basta: una ragazza smarrita senza una vera identità. Una figlia del vento,
della terra e delle stelle, in perenne viaggio senza una meta, funambola per
scelta ed equilibrista per necessità.
Seguendo Ieriyn alta e splendente nel
cielo ho puntato a nord, affondando i miei piedi nel fango, ma senza mai
distogliere lo sguardo dall’adunanza di stelle custode dei sogni più belli.
- Quante volte ho puntato il mio arco alle
stelle lontane? Chiudi un occhio e mira trattenendo il respiro: se ne prendi
una buona, forse i tuoi desideri si avvereranno. Falla cadere, falla morire,
sei una cacciatrice e non hai mai afferrato nemmeno un sogno. -
Era il mese della dissolvenza, ricordo le
foglie a terra e il rumore dei miei passi che lentamente imparavo a celare. Gravata
di un peso troppo grande per le mie spalle esili, ho dovuto lasciare svariate
cose per strada: tutto ciò che mi è sempre servito, del resto, me l’ha fornito
la natura.
- Voglio cacciare con cuore indomito. Voglio imparare la saggezza delle
lontane montagne. Sia il mio cuore una fonte d'amore che scorre inesorabile
come linfa sotterranea. -
Ho imparato che la morte mi alitava gelida
sul collo ad ogni svolta di sentiero, e che anche la natura che m’aveva accolta
nel suo grembo materno era in grado talvolta di demolirmi e sottopormi a prove
sempre più ardue.
Ho dovuto affilare i miei artigli ed
accettare il mio istinto primordiale: ho iniziato a cacciare, a macchiare la
mia pelle del sangue nemico, ad attaccare per prima per sopravvivere, e a
braccare la preda per non perdere mai il predominio del cacciatore.
Ho scoperto il “Giardino
Selvaggio" ed ho iniziato ad amarlo perdutamente. Vi era bellezza
in ogni dove: l’oro del sole cospargeva di polvere luccicante le foglie
danzanti, e la rugiada si adagiava sull’erba come diamante. Le acque pure dei
ruscelli erano la vita che scorre senza tregua, e i frutti della terra un
tesoro di cui mai esser sazi.
Tutto mi sembrava un equilibrio perfetto
oscillante tra le più buie tempeste e le più splendenti delle albe. Quel
Giardino era ovunque, e io ne ero la guardiana e cacciatrice. Avrei difeso la
Bellezza da tutto ciò che di deviato e subdolo avrebbe osato calpestare l’amato
suolo.
Avevo una fede a sostenere i miei passi,
non più soltanto la disperazione di sopravvivere. E per quella fede, per quel
giuramento a me stessa prima che a alla mia Dea, ho affinato i miei sensi e
allenato il mio corpo: ho sviluppato doti feline per saggiare il terreno,
appetito animalesco per godere dell’ebbrezza della caccia, e coltivato
l’istinto del branco per non perdere mai di vista i valori che mi rendono diversa
da un qualsiasi vile predatore.
Troppi sentieri ho percorso, e su molti di questi ho lasciato orme silenziose
che sono svanite al primo soffio di vento. Nel labirinto di strade che mi ha
condotto verso mete che potessero soddisfare la mia curiosità, sempre accesa ed
acuta, ho incontrato miriadi di passanti. Alcuni mi hanno solo sfiorata, altri
ignorata.
Altri invece mi hanno sbattuto contro con
violenza e si sono portati via una piccola parte di me.
A volte ho anche accettato nuove gabbie, provato nuove vite come se fossero
abiti che si possono indossare soltanto per un po’, soltanto finché ci si sente
bene dentro.
Ma l’istinto che lacerava il mio cuore non
dormiva mai, mai si placava, e costantemente cercava di lacerarmi la pelle per
uscire di prepotenza a cercare la libertà.
Parola buffa la libertà. Quante volte ho
pensato di averla trovata?
Tra le braccia del primo uomo che ho
davvero amato, o nel vento che me l’ha portato via, in una casa fatta di
mattoni e di affetto, o in un tempio colmo di fedeli e amici coi quali ho
condiviso i miei servigi per Lei.
La verità è che dalla maledetta fune tesa tra i paradossi della mia esistenza non
sono mai scesa, e per quanto qualcuno un giorno mi abbia insegnato a danzarvi
senza timore, credo di non essere mai riuscita a farlo davvero.
Arranco passo dopo passo combattuta tra
l’apprensione di non fare un passo falso e il desiderio dilaniante di cadere
una volta per tutte.
E mi chiedo se lui salga ancora qualche
volta sopra i tetti per guardare le stesse stelle che vedo io, o se abbia
sepolto il nostro inverno in fondo al suo cuore e l’abbia dimenticato.
Questo è il mio viaggio, questa è la mia
strada. Il sentiero inesplorato che mi ha portato fino a qui: la Valle del
Vento Gelido, oltre il dorso del mondo. Il freddo mi penetra nelle ossa, mi
squarcia la pelle e mi lecca le ferite con lingua di spine.
Solo un vento impietoso spazia in queste
ampie radure innevate, e i miei passi incedono di una lentezza appesantita dal
manto dei ricordi che nel silenzio cala sui miei pensieri.
- E’ allora che ti senti invecchiare…quando ti accorgi di avere più ricordi
che desideri… -
Il rumore della neve che cede al fardello dei miei passi mi invita a continuare
a camminare, mi offre un lago di puro bianco candore inviolato, come una poesia
sublime che a nessuno potrò mai raccontare.
Ma quella stessa neve che riempie i miei stanchi occhi di una bellezza
appagante, è la stessa neve che uccide e congela le membra, fino a
cristallizzare la morte in un’ultima meravigliosa creazione immota.
Non è il freddo che mi preoccupa qui, né la difficoltà di cancellare le mie
tracce o il pericolo di sentirsi sempre troppo esposti, più prede che
cacciatori. No, è il senso di vuoto che provo, un vuoto che non riesco a
riempire di calore appellandomi a ciò che mi porto dentro.
Semino fiori insanguinati in questo
Giardino candido, e le mie lame implacabili reclamano altre vittime
immeritevoli d’esistere.
Ma i miei piedi sono stremati, e ho
bisogno di levarmi questi abiti per infilarmene di caldi e asciutti: rischio di
morire ad ogni passo in questo paradiso dimenticato dagli dei, se non controllo
il livello di insensibilità della mia pelle. E mi vedo mattone logoro nel muro
della città del Giudizio che ci attende dopo questa vita, o prostrata innanzi a
Lei a chiedere perdono per non aver mai compreso a pieno come servirla.
* * *
La raminga chiuse il taccuino con un gesto
secco e lo infilò rapidamente in borsa. Il freddo stava diventando
insopportabile, ed Aurin era perfettamente consapevole di quanto rischioso
fosse indugiare troppo in quell’immobilità che pure le era stata necessaria per
riordinare le idee e scrivere un intimo testamento. Con passo appesantito dal
fardello dello zaino colmo di provviste e dal carico delle armi legate alla cinta
si incamminò in direzione della grotta sicura che aveva trovato qualche giorno
prima. Il rifugio distava poche ore di cammino, e le avrebbe garantito un
ottimo riparo per la notte gelida che la attendeva, ma la natura imprevedibile
e beffarda non era propensa ad assecondare i suoi piani.
Mentre la ranger avanzava a rilento un vento furioso iniziò a spazzare le ampie radure innevate,
sollevando mulinelli di candida neve a ferire il volto della ragazza che
incedeva con passo sempre più stremato. Il cielo lentamente si fece di piombo,
come se il bianco potesse d’un tratto tramutarsi in nera e opprimente nube, che
scendeva a coprire con la desolazione della buia tempesta un luogo dove lo
sguardo degli dei non avrebbe osato giungere.
Una delle prime cose che un individuo solitario impara innanzi alla maestosità
violenta del rigido nord è che in caso di bufera l’unico modo per salvarsi è
trovare riparo immediato. Aurin questo lo sapeva bene: aveva già esplorato la
zona e concluse che le restava un’unica possibilità. Una grotta abbastanza
vicina, da poter raggiungere prima che l’inferno di neve si scatenasse
annientandola, era abitata da un anziano orso preoccupato di proteggere la tana
della sua femmina. L’aveva osservato qualche giorno prima, seguendone le orme e
poi intrufolandosi nel suo territorio, ed aveva scoperto il motivo della sua
aggressività esagerata: una compagna da proteggere nelle vicinanze, forse anche
dei piccoli.
L’animale non l’avrebbe mai lasciata
entrare, e la cacciatrice non aveva alcuna intenzione di violare la natura
intimamente selvaggia e fiera dell’orso attirandolo in trappola. L’unica via
che le restava per sopravvivere la conduceva inevitabilmente a combattere,
ponendosi al pari della bestia: lottare per vivere, per conquistare una tana
che la riparasse dalla tormenta.
In quel momento capì di
avere solo sé stessa, il suo istinto ferino, il richiamo atavico alla vita.
Sguainò le lame corte che erano il prolungamento dei suoi stessi artigli, ed
affrontò l’animale a viso alto, concedendosi il tempo di fissare i suoi occhi
in quelli della bestia, riconoscendovi la stessa antica fierezza.
I movimenti della cacciatrice furono rapidi e letali: si scagliò imprudente
contro l’orso che si ergeva maestoso sulle zampe posteriori, spostandosi agile
e svelta nonostante il freddo che le attanagliava le membra. L’ebbrezza che la
caccia le provocava incendiò il suo cuore alimentando una furia cieca e
spietata, ma poi qualcosa le attraversò la mente e per un attimo tentennò. Esitò
all’idea di condannare a morte un amore, e questo le costò caro: una zampata
violenta le lacerò il braccio, le fece presagire il sapore amaro del sangue che
sale alla bocca e la sensazione che tutto possa svanire in un solo momento.
Riuscì a reagire, a colpire
con la precisione che una rabbia disperata le permise di avere nonostante
tutto. Anche lei aveva un amore da difendere, anche lei aveva qualcuno dal
quale tornare: era un’idea limpida e semplice che le si profilava nella testa
proprio un istante prima di trionfare.
L’orso morì. La ranger aveva conquistato la sua tana, la vita, l’amore.
Ma il suo sguardo rimase turbato, velato di una profonda tristezza, reso opaco
dalla consapevolezza che l’amore e la fede non fanno altro che richiedere
sangue. Sempre altro sangue.
E quel rosso acceso che si
perdeva affogando tra le sfumature intense della profonda boscaglia aveva tutto
un altro peso lì dove il bianco costringeva a vedere la violenza e l’onta che
portava.
“E’ la vittoria dei vinti..” – con questo paradossale pensiero crollò su
sé stessa, scivolando lentamente con la schiena contro la parete rocciosa,
incurante del profondo graffio che aveva sul braccio.
Troppo freddo per sentire dolore. Troppo importante quella lezione di vita per
cancellarne le tracce.
Passò qualche minuto prima
che riuscisse a riprendere conoscenza. La grotta era completamente silenziosa
adesso: la compagna della sua vittima non era stata lì di recente, glielo
dissero con chiarezza le orme che esaminò. Una volta sicura di essere
completamente sola si affrettò a preparare il suo rifugio per la notte. Con mani gelide ed insensibili si mise a sfregare i legnetti più asciutti
che era riuscita a conservare, ripetendo a sé stessa che non aveva alcuna
intenzione di morire di freddo. In pochi istanti un timido fuoco prese vita
accarezzandole il viso con la dolcezza infinita di una mano calda nel cuore
gelido dell’inverno, e tanto bastò per strapparle un delicato sorriso, forse il
primo dopo molti giorni.
Rincuorata dalla danza delle fiamme, Aurin
sciolse i suoi lunghi capelli rossi, prese la coperta più pesante che portava
con sé, e si abbandonò a quel torpore lasciando che il suo sguardo profondo
come il verde della foresta si smarrisse in quella che era solo un’enorme,
desolata, distesa di bianco.
La tempesta si era calmata adesso, solo
alcuni mulinelli di neve ancora s’alzavano come spettri silenti che danzavano
per richiamare indietro la bufera, così simili agli spettri che la ragazza
poteva vedere ogni volta che chiudeva gli occhi: fantasmi lontani, amori perduti,
braccia estranee che cercavano di afferrare ciò che non sarebbe mai potuto
essere loro.
Si riscosse dal torpore solo dopo qualche
ora, a tempesta completamente finita.
“Devi alzarti adesso, devi cambiarti e
medicarti le ferite. Lo squarcio sul braccio sinistro è una scia di rubino
ghiacciata, scintillante sulla tua pelle diafana. Alzati.”
Parlava a sé stessa da mesi ormai, per
riempire il vuoto della solitudine di un viaggio che aveva fortemente voluto ma
che la stava mettendo a dura prova. Per trovare la forza necessaria pensò ai
suoi compagni animali, che la aspettavano poco distante in una valle
tranquilla. Decise di rimettersi in cammino per raggiungerli al più presto.
Nella sua mente stava infatti iniziando a
prendere forma un’idea che si traduceva sempre nella stessa ricorrente domanda:
“Dov’è casa mia?”
La questione però non era dove, ma quale,
e nella confusione della sua vita le risposte erano state poche e difficilmente
comprensibili.
Quando fu nei pressi della valle il cielo
terso e la bufera soltanto un ricordo. Un fischio sommesso e cadenzato in due
tonalità ben precise bastò a far comparire la sagoma di Arax al galoppo: un
destriero dal manto candido che sfigurava al confronto della purezza del nord,
e gli occhi pieni di una vecchiaia incombente, lucidi come quelli di Aurin,
coperti di una patina che si addensa sullo sguardo di chi ha visto molte,
troppe cose.
“Portami a casa Arax.”
Per lui non era mai stato un quesito
difficile. Ai suoi comandi rispondeva con movimenti precisi, sempre gli stessi.
Per lui era tutto più semplice.
Quanti mesi erano passati dal giorno della
partenza per il nord? Ormai aveva perso il conto. Ma poteva affermare con
sicurezza che ce ne mise almeno un altro per tornare verso la città in cui aveva
abitato prima di sentire ancora il bisogno di scappare, sempre più lontano,
verso luoghi inesplorati. La stessa città in cui forse ancora lui la aspettava,
affacciandosi ogni notte sul tetto della loro piccola torre, guardando verso le
stelle lontane nel silenzio di chi attende un ritorno che mai gli era stato
promesso.
Le alte mura di cinta distavano ormai
pochi minuti al galoppo quando decise di fermarsi nei pressi della grande
foresta, al limitare del bosco. Non era ancora pronta per rivedere la grande
città.
Tra i rami fitti della
foresta filtravano i raggi di un debole sole primaverile che illuminava senza
calore. Aurin aveva l’aria di una selvaggia senza sembrarlo davvero: certo, l’armatura
di cuoio era consumata, i capelli scompigliati e qualche macchia di fango e
sangue rappreso macchiavano la pelle, ma il suo viso era delicato e il suo
passo leggero, le sue movenze sinuose come quelle di un fantasma che leggiadro
attraversa il bosco.
Aveva lo sguardo di chi ha
accumulato in un certo bizzarro modo una saggezza che contrasta coi lineamenti
troppo giovani del viso, e si sarebbe detto che vi fosse una qualche bellezza
sublime dei vinti ad illuminare il suo volto.
Silenziosa avanzò
trascinando le redini del suo destriero, fino ad un rifugio dove trovare
ristoro.
Il fuoco divorava lentamente i pochi rami
spezzati che era riuscita a trovare. Prima di trasformarsi in carbone si
contorcevano in una strana danza, lasciandosi consumare con spietata calma, e a
lei piaceva starli a guardare.
Col calore del fuoco lo strato di neve sottile,
retaggio dell’inverno ormai finito, iniziava a sciogliersi sotto i suoi piedi,
e quello che era stato immacolato candore diventava una strana fanghiglia
liquida nella quale affondare.
D’un tratto il fuoco si piegò arrendevole ad una folata di vento innaturale. I
sensi acuti della cacciatrice percepirono dei chiari passi e ne intuirono la
direzione. Si alzò e avanzò cauta, mimetizzandosi nella boscaglia per essere
meno vulnerabile mentre cercava di trovare le tracce dell’indesiderato ospite.
Ma non c’era nessun pericolo: quando tornò al falò qualcuno aveva lasciato
qualcosa.
Si sedette e arrendevole lasciò cadere le difese. Sapeva benissimo che era
stato lui, e presagì il male che gli avrebbe procurato aprire quel pacchetto.
Quasi dimenticò dov’era, pur sapendo quanto fosse fatale. Lui aveva lo strano
potere di annullarla, di farla sentire disarmata e predata ovunque fosse. Lo
odiava, e lo amava, anche.
Lesse il biglietto solo dopo aver fatto un
profondo respiro. “…possano difenderti
loro, se non mi vorrai più al tuo fianco.”
Tirò fuori entrambe le armi, le osservò
illuminate dai riflessi del fuoco, le ammirò e le corteggiò con lo sguardo,
prima di impugnarle con più decisione. Le riempivano perfettamente quelle mani
che le sembravano tanto vuote, e le lame affilate tagliavano il vento
sussurrando melodie sottili.
“Mi disarmi e poi cerchi di riparare il danno?”
Sorrise e scosse la testa. Erano due lame
sublimi: sarebbero diventate i suoi nuovi artigli, che ancora attendevano
immacolati il loro battesimo di sangue.
Passò le dita sul filo della lama più
scura, fino a che il sangue uscì a tingerne il profilo di rosso. Le sembrò un
connubio splendido, e il sapore del sangue che ora sentiva sulla lingua, dopo
essersi leccata il dito, era una promessa certa di ciò che la aspettava.
Eccolo lì il paradosso della sua
esistenza: la necessità di combattere per vivere e allo stesso tempo l’odio per
la maledizione che questa comportava.
“Detesto queste mani intrise di sangue.
Detesto ciò che i miei occhi hanno visto. Fino alle mie ginocchia nella melma e
nel fango. Quanto male fa purificarsi?”
Sussurò a labbra strette questa disarmante
confessione e sì sentì come se stesse nutrendo la bestia perfetta: dissanguata
abbastanza per continuare ad uccidere. Ripensò alla prima volta che aveva
conficcato una lama nel petto di qualcuno per non essere lei la prima a morire.
Era solo una ragazzina. E aveva foreste,
laghi e vallate che erano solamente sue, e voleva correre attraverso i giorni
d’estate catturando ricordi per gli anni a venire.
Spense il fuoco e sparse le ceneri.
Calpestarle era come seppellire i residui di una vita che non voleva più.
“Sono stanca di scappare. Vieni fuori, so
che mi stai ancora osservando.”
Un ramoscello scricchiolò
poco più in là, e il velo magico che celava l’uomo nell’ombra si dissolse. Venizar
il lupo, lo stregone dallo sguardo buio e l’indole selvatica, la stava
osservando mestamente. Nel vederlo passeggiare per le vie della grande città si
sarebbe certo pensato che fosse un uomo distinto, ben vestito, educato. Ma
Venizar era un pozzo di misteri e di inquietudini inesplorate, un burattino
senziente nelle mani della potente dea della magia. Cosa poteva centrare tutto
questo con la raminga cacciatrice dalla chioma di volpe? A prima vista
assolutamente niente. Quel che Aurin aveva trovato in lui andava oltre le
semplici apparenze, scavava nell’indole atavica che genera l’stinto del
cacciatore. Per lei Venizar era semplicemente un lupo, solitario come non ne
esistono, perché un lupo che si stacca dal branco lo fa solo per crearsene uno
nuovo. L’istinto le aveva detto di fidarsi di lui, e così aveva fatto.
Innamorarsi era stata una conseguenza non prevista.
Vedere adesso il suo sguardo
rendeva tutto perfettamente chiaro: ancora una volta il suo cuore rinnovava silenziosamente
l’antica promessa.
Sapeva che un legame
profondo la univa a lui, nonostante cercasse di scappare rincorrendo le tracce
della libertà che aveva perduto o che forse non aveva mai avuto. Capì che lo
amava ancora, e che in lui ci sarebbe sempre stato un pezzetto di casa sua.
Anche se lui l’aveva
tradita.
Lui, il grande amore che le
aveva permesso di sopravvivere in nome di qualcosa di più grande, e allo stesso
tempo il boia che l’aveva lasciata nuda e disarmata di fronte all’evidenza che
l’amore puro non esiste. Per un attimo si chiese se sarebbe sopravvissuta,
lassù al nord, contro quel grande orso, se non ci fosse stato lui nella sua
testa.
Venizar il Lupo si avvicinò
puntando lo sguardo profondo e inquieto dritto negli occhi schivi di lei. Per
qualche istante fu come se niente fosse cambiato, come se ora potessero
stringersi e amarsi come avevano sempre fatto. Ma il fantasma della fiducia
tradita aleggiava tra loro, così Venizar si avvicinò, e quasi esitò prima di avere
il coraggio di toccare il volto della ragazza con una fuggevole carezza
affettuosa.
“Sono felice di rivederti tutta intera, mia Sihaya.”
Sentirsi chiamare così la
infastidiva, perché le ricordava le promesse fatte e poi infrante. Nonostante
questo, la vicinanza di lui bastò a farla sentire indifesa e a toglierle la
voglia di litigare ancora. In cuor suo era altrettanto felice di rivederlo, ma
non lo ammise.
“Avevo bisogno di fare questo viaggio da sola, ho compreso molte
cose. E…mi sento più forte.”
Lui sembrava non ascoltare
le sue parole, come se la conoscesse abbastanza bene da sapere che erano solo
tasselli di un muro eretto per mantenere le distanze. Parole vuote, quel che
contava davvero era il suo sguardo velato di tristezza.
La osservò attentamente
scrutando ogni parte del suo corpo come per sincerarsi che fosse davvero tutta
intera, e non tardò ad accorgersi della brutta ferita sul braccio.
“Più forte? A quale prezzo?” -
La rimproverò con apprensione alludendo con lo sguardo alla ferita.
“Il prezzo di capire chi sono, cosa voglio, e per cosa combatto.”
“Suppongo che non condividerai questa conoscenza con me vero?”
Un sorriso amaro accompagnò
le ultime parole dell’uomo, dopodiché si zittì e con l’aria corrucciata si mise
a sedere di fronte a lei, dall’altra parte del falò. Poi insistette:
“Non mi hai ancora perdonato per quello che ti ho fatto.”
Non era una domanda, ma una
consapevolezza.
“Non ho perdonato né te né me.”
Suonò come un’ammissione
sofferta, e lo era. L’amore negli occhi di lui, nonostante tutto, era una
pugnalata in pieno petto, e la consapevolezza che forse avrebbe potuto evitare
tutta quella sofferenza era una certezza così lancinante da togliere il fiato.
Non era la ferita di carne e sangue a compromettere la sua incolumità, bensì quella
che Venizar lo stregone le aveva inflitto lasciandola disarmata, priva di
fiducia nei confronti dell’unica persona che pensava di conoscere.
Il silenzio tra i due si fece pesante, mentre le fiamme
danzavano in spasmi convulsi cercando di lottare contro la pioggia fine e
leggera che d’un tratto iniziò a cadere.
Gli occhi della raminga non
sapevano resistere al richiamo di quei caldi bagliori distruttivi che in un
giorno lontano nel tempo le avevano donato la libertà. Si alzò e andò a sedere
accanto a lui, così da poter stringere la mano nella sua e sperare che il
calore del suo corpo riuscisse a riportarla presto indietro dal fiume di
ricordi che dal fuoco le si stava riversando addosso.
Rinvigorito dal gesto di
lei, Venizar trovò il coraggio di insistere:
“Non è cambiato niente per me, Sihaya. Voglio che tu sappia almeno
questo. Ti prometto di esserci, sempre.”
Aurin si chiuse ancora più
in sé stessa e chinò il viso verso la terra umida. Come spiegargli la
sensazione di essere piena di cicatrici sotto la morbida pelle? Di aver aperto
le vene per lasciarvi scorrere ogni cosa, per annegarvi il dolore e mischiare
insieme sangue e veleno?
Una mente leggera che a volte vola su ali di farfalla alla ricerca
dei sogni, ed un cuore che pesa sempre come un macigno. Un cuore che non
dimentica mai.
“Dovresti saperlo: un lupo
fatica a dimenticare…ogni, minima, cosa.”
“Allora ricorda, amore mio, che il fuoco che sembra spento spesso
dorme sotto la cenere. Il nostro fuoco non è spento, te lo leggo negli occhi.”
Il Lupo non si aspettava una
risposta, sapeva perfettamente quanto testarda fosse la sua donna. Ora che la
sera era calata restò in silenzio, guardando il cielo trapuntato di stelle. Lei
invece tornò a fissare la cenere sotto i suoi piedi, vedendovi tutto ciò che
non riusciva a cancellare: le fiamme corrodere la casa che aveva odiato, la
fame e la disperazione iniziali, le carezze del primo amore perdute per sempre,
le promesse per la vita e i sogni infranti, l’amarezza di sentirsi traditi e
violati in ciò che si ha di più caro, e infine le nuove promesse appese a
fragili fili tesi verso un futuro incerto.
“L’amore e il rimorso sono così simili. Come queste dannate braci sopravvivono
sempre.”
Si alzò di scatto, attizzò i carboni rimasti e scoprì le deboli fiammelle che
arrancavano per respirare sotto la cenere. Diede un calcio alla terra friabile
sotto i piedi e coprì i residui del focolare fino ad estinguerlo, per poi
calpestarlo e proseguire oltre.
“Ho bisogno di cacciare. Sei
con me?”
Sapeva perfettamente che
anche lui non aspettava altro. Era solo ignaro di tutto ciò che le stava
attraversando la mente, ma la ragazza era troppo esausta per continuare a
gettare addosso agli altri il proprio dolore.
Lui le sorrise ampiamente e
il suo sguardo si accese di una scintilla di indomabile desiderio. Si alzò
altrettanto rapidamente e le balzò di fronte, avvicinando così tanto il viso a
quello di lei che resistere alla tentazione di baciarla fu una prova titanica.
“Fammi vedere cosa hai imparato lassù.”
L’occhiata divertita di
sfida accese nella cacciatrice una brama irrefrenabile.
“Sai cosa ho capito nell’estremo nord? Che voglio cacciare con
cuore indomito, voglio continuare a farmi largo tra le sterpi e attraversare la
boscaglia più fitta, voglio trafiggere e calpestare tutto ciò che infesta
l’enorme giardino consacrato alla selvaggia bellezza della natura.
Voglio lasciarmi alle spalle tutto ciò che indegno non merita che d’esser
sepolto: sia esso un cadavere putrido d’orco o il marcio delle persone
immeritevoli di fiducia.”
Nel pronunciare queste
parole si allontanò da lui come per scongiurare il pericolo di cedere a
qualcosa di cui poi si sarebbe pentita, ma lui le sorrise dolcemente e
allontanandosi a sua volta replicò:
“Un lupo caccia con passione: è per
difendere la sua tana e i suoi compagni che lotta fino allo stremo dando tutto
di sé. Il tuo cuore è sempre stato indomito e appassionato, Sihaya. E’ al tuo
spirito che devi permettere di essere libero e implacabile, la tua vita epurata
dai compromessi.”
Aurin gli rivolse un’occhiata docile che splendeva quasi come un perdono. Nel
suo cuore ringraziava silenziosamente il Lupo che aveva deciso di camminarle
sempre a fianco.
Però la via si stava facendo
sempre più tortuosa e il suo incedere implacabile: ad ogni passo l’indulgenza della
ragazza andava scemando, e il pesante orgoglio di essere ciò che aveva scelto
diveniva sempre più imponente.
“Venendo qui ho trovato un accampamento dei barbari Utard occupato
dagli orchi. Devono aver approfittato dell’assenza degli uomini impegnati in
qualche battaglia. Quella feccia non merita di vivere un giorno di più.”
Venizar annuì e raccolse le
sue poche cose per poi raccogliersi qualche minuto in una concentrazione
necessaria a richiamare a sé l’antico potere magico. Ad Aurin bastò anche meno
per riempire la faretra di frecce, assicurare le due lame corte alla cinta in
caso di incontri ravvicinati, e stringere le cinghie dell’armatura sui polsi.
Era sempre pronta a combattere, per tutta la sua vita non aveva fatto altro.
Raggiunsero l’accampamento
occupato dagli orchi avvicinandosi di soppiatto e senza farsi notare. Aurin
salì tra i rami più alti di un antico albero che si affacciava sulla recinzione
e attese in silenzio, accarezzando il legno pregiato e leggerissimo del suo arco
elfico. Era perfettamente consapevole che il suo compagno sapeva ciò che stava
facendo, e non aveva mai dubitato del potenziale dei suoi poteri magici, al
massimo aveva nutrito dubbi sulla sua capacità di controllo mentale. Ma in quel
momento tutto ciò che le interessava era spazzare via la razza abominevole che
si trovava dove non avrebbe dovuto essere.
Dall’accampamento proveniva
un fetore insopportabile, ma il brusio tranquillo degli orchi affaccendati era
un chiaro segnale che non si aspettavano visite e sarebbe stato quindi un gioco
da ragazzi attaccarli di sorpresa.
Venizar fece appello alla trama magica che gli
scorreva nelle vene, si celò alla vista e sgusciò oltre il cancello. Una volta
raggiunto il centro dell’accampamento liberò dalle sue mani protese verso il
cielo una scarica potentissima di fulmini, che in un solo istante spazzò via
gli esemplari d’orco più deboli e ferì tutti gli altri. Approfittando
dell’effetto sorpresa ebbe poi tutto il tempo di sguainare la sciabola e menare
fendenti contro gli orchi disorganizzati, mentre la ranger lo copriva con una
pioggia di frecce precise e letali.
Fu una vera strage, la
maggior parte dell’esercito orchesco fu sterminata senza fatica, alcuni
provarono a scappare ma Aurin balzò all’ingresso principale dell’accampamento e
sguainate entrambe le spade fece in modo che nessuno potesse sottrarsi al loro
giudizio.
Quando ormai la vittoria
sembrava certa, un tamburo iniziò a scandire alcuni vibranti colpi. Aurin corse
verso Venizar scavalcando i cadaveri fetidi degli orchi, e i due si misero
schiena contro schiena. Capirono subito che la vera preda, quella che li
avrebbe resi orgogliosi della loro caccia, doveva ancora arrivare.
La sicurezza di poter
trionfare pulsava lentamente nelle vene finché senza quasi rendersene conto si
trovarono dinnanzi la bestia che stavano cercando: un ogre massiccio e
imponente che incedeva furioso, facendo tremare il terreno. L’enorme bestia
spalancò le sue fauci bavose, quasi in un marcio sorriso, e dilatò le narici
soffiando con aria di sfida.
Cacciatori o prede? Chi era
cosa? Il Lupo mostrò le zanne, ballando la sua danza mortale, appiattendosi e
poi sgusciando via rapido, colpendo senza farsi colpire. Aurin assestò qualche
colpo critico con i suoi metallici artigli, dopodiché si allontanò rapida, ed una
moltitudine di frecce sibilò nell’aria conficcandosi nella carne del colosso. Tenuto
in piedi ormai soltanto dalla collera, l’ogre in un attimo fatidico esitò, e fu
allora che i due cacciatori implacabili colsero l’attimo e lo atterrarono.
Il cuore batteva forte e gli
sguardi si cercarono, complici.
Una volta fuori dai cancelli
osservarono l’immagine della loro vittoria: sangue e cadaveri, e rantoli
sommessi. Aurin non poteva sopportare la visione di quell’orrore che seppur sconfitto
continuava a contaminare la bellezza del suo adorato Giardino. Volse
un’occhiata a Venizar che capì all’istante i suoi desideri. Lo stregone volse
il palmo aperto verso il cielo limpidamente buio, e una piccola fiamma
inoffensiva prese vita. La ranger incoccò una freccia, la accese alla
fiammella, e scoccando trasformò la visione di orrore e morte in un immenso
falò nella notte.
Stettero a guardare insieme
le fiamme che crescevano poco a poco, vicini.
“Dovevo purificare questo luogo, ma ho sbagliato. Ho tolto la casa
a chi prima viveva qui…sarebbero potuti tornare…”
Venizar la abbracciò prima
di permetterle di continuare.
“Una cosa selvaggia non si è mai dispiaciuta di nulla.”
La ragazza sapeva che lui
aveva ragione. Il suo era un cuore ribelle, né misericordioso né malvagio,
semplicemente selvaggio. Ora che aveva imparato a cacciare con cuore indomito,
la sua anima poteva finalmente trovare pace.
Si strinse a lui e tornarono
a guardare le fiamme che divampavano in bagliori maestosi.
Se avessero avuto la pelle
ricoperta di peli, avrebbero di certo ululato.
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