La miriade di luci elettriche
della grande città illuminava le vie affollate, inondate dal flusso
inarrestabile di tanti passanti dai volti indistinti ed il passo veloce. Arthur
camminava spedito, con le mani affondate nelle tasche del pesante cappotto, la
testa bassa, e lo sguardo in buona parte celato dalla tesa del basco calato
sulla fronte.
Nemmeno si accorgeva di urtare le
spalle dei passanti, mentre si affrettava lungo il marciapiede verso la
fermata, per prendere l’ultimo autobus verso casa. Una volta giunto sotto la
luce giallastra del lampione che illuminava la fermata si ridestò dai suoi
pensieri, e iniziò a posare uno sguardo distratto sul mondo che lo circondava.
Prese contatto con la realtà quel
tanto che bastava per fare il biglietto e salire sul mezzo, poi si rannicchiò
contro un finestrino, e fissando la condensa del suo respiro che si formava sul
vetro ripiombò nella massa indistinta dei suoi pensieri.
Quel pomeriggio era stato
nuovamente al museo, dove aveva trascorso attimi infiniti a contemplare i
quadri esposti, lasciando che il suo sguardo si posasse su ogni singola
pennellata, ammirando la corposità della materia pittorica, e ricostruendo
nella sua mente i gesti che aveva dovuto compiere quella mano nervosa quando aveva
dato vita alla tela.
Il suo rituale di fruizione
prevedeva poi di allontanarsi dal quadro, così retrocedeva per quanto gli era
possibile, restando con le braccia conserte e la testa reclinata ad osservare
il soggetto nel suo complesso, compiacendosi della bellezza dell’impressione
generale. Restava fermo a tal maniera a lungo, annuendo ripetutamente tra sé
con un’espressione estasiata dipinta sul volto, che solo l’insolenza dei
turisti riusciva a cancellare, inducendolo a borbottare seccato e a spostarsi
verso il prossimo quadro.
Amava Munch fin quando da bambino
si era trovato di fronte alle sue opere, e ne aveva provato un misto di terrore
e attrazione che gli aveva procurato non pochi incubi. Ma quando crescendo la
sua mano era diventata esperta di colori e tavolozze, il punto di riferimento
imprescindibile, la vera fonte di ispirazione, era sempre stato lui, con la sua
arte piena di vita e tormento. Nonostante i bisogni del mercato l’avessero
portato ad elaborare uno stile ben lontano da quello del maestro norvegese,
Arthur aveva continuato a coltivare come hobby quello di riprodurre uno per uno
tutti i quadri del suo ispiratore. Aveva già prodotto una decina di copie
perfette, delle quali si vantava alquanto, e che teneva gelosamente appese alle
pareti della sua stanza.
In quei giorni, approfittando del
periodo vacanziero, aveva preparato una nuova tela sul cavalletto del suo
studio casalingo: era giunta l’ora di uno dei quadri più famosi, quello che
forse personalmente amava di più. E quell’intero pomeriggio era rimasto a
contemplare l’originale, per fissare nella sua mente non solo la bellezza della
forma, ma soprattutto l’impressione profonda del colore, dei neri, dei bruni, e
di quelle sanguinose pennellate vermiglie.
Gli scossoni dell’autobus di
linea, che ora percorreva una poco illuminata via extraurbana, lo costrinsero a
rinunciare di nuovo ad inseguire il flusso dei suoi pensieri. Si concentrò su
ciò che vedeva al di là del vetro, e dopo qualche minuto fu ora di scendere.
La zona in cui viveva era un
quartiere residenziale piuttosto tranquillo: poche case sorgevano sparse lungo
il diramarsi di viuzze strette ma lineari, alle quali faceva da cornice un
fitto bosco, spesso avvolto nella nebbia in quella stagione. Gli piaceva
concedersi lunghe passeggiate lungo le vie secondarie per raggiungere la sua
dimora, soprattutto adesso che la stagione mite rendeva piacevole anche la
brezza della sera.
Lontano dalle luci della città
poteva appagare il suo sguardo con la vista di un cielo sterminato, che in
direzione del sole morente sembrava tingersi di bagliori infuocati, evocando in
una sola visione infernale tutti i toni più intensi che Arthur avesse mai
visto. Pensò ai quadri del suo maestro, a come riuscivano a richiamare con
poche semplici pennellate lo splendore della natura, in tutta la sua incombente
presenza. Si ripromise di concentrare i suoi studi maggiormente sul colore,
fino a che non avesse ottenuto anche lui una cromia simile.
Mentre procedeva su viali
semideserti, il tramonto aveva lasciato spazio all’oscurità che si faceva più
insistente, ma la cosa non lo disturbava affatto, dato che un debole chiarore
lunare rendeva i contorni delle cose ancora ben riconoscibili. Così, dopo essersi
saziato alla vista del tramonto, e sentendosi ancora ebbro per la vista di quel
trionfo di colori, spostò la sua attenzione verso ciò che lo circondava,
osservando con distratta curiosità le poche luci alle finestre di case tutte
uguali.
A quell’ora non si incrociava
quasi nessuno per strada, e il silenzio della sera avvolgeva il circondario,
dando ad Arthur la sensazione di trovarsi in uno di quei paesaggi imprigionati
in una sfera di spesso vetro.
Fu mentre percorreva una di
quelle vie desolate che la vide per la prima volta: una figura esile di donna,
appoggiata ad una staccionata dipinta di vernice bianca leggermente scrostata. Se
ne stava immobile a fissarlo, come una sagoma scura su cui risaltava soltanto
il volto pallido illuminato dal chiarore lunare. Alle sue spalle una casupola
piuttosto insignificante, dalla quale non proveniva alcuna luce, se non quella
della luna che si rifletteva sui vetri delle finestre buie.
Arthur ebbe un leggero fremito a
quella visione, e istintivamente rallentò il passo esitando per qualche attimo,
incerto se proseguire o cambiare strada. C’era qualcosa che lo turbava in
quella presenza silenziosa, ma decise di proseguire, forzandosi di guardare
dritto avanti a sé, per evitare di incrociare il suo sguardo quando le sarebbe
stato vicino. E così fece, ordinando a sé stesso di non innervosirsi senza
motivo, anche se l’ostinata immobilità della donna, e la sua insolenza nel
continuare a fissarlo, gli creavano un enorme disagio.
Ma quando fu vicino a lei non
riuscì a trattenere quell’impulso irrefrenabile che si attiva nel cervello
quando la curiosità domina il buon senso, e così la guardò. Si accorse allora
dei suoi lineamenti delicati e della sua pelle chiarissima: doveva essere molto
giovane, almeno all’apparenza. Alcuni ciuffi di un rosso acceso le
incorniciavano il viso ricadendole morbidamente sulle spalle, e i suoi occhi di
un grigio profondo, che lo fissavano senza pudore, sprigionavano un bagliore
argenteo che lo fece nuovamente trasalire.
In quel momento il suo cervello
si annebbiò, e l’unica cosa che fu in grado di fare fu proseguire per la sua
strada a testa bassa, senza più voltarsi. Quando ebbe girato l’angolo prese a
fare lunghi e profondi respiri, e il turbamento che aveva provato svanì poco a
poco, lasciando il posto a una serie di interrogativi. Non riusciva a spiegarsi
perché quella visione l’avesse tanto colpito: non si trattava solo della
bellezza disarmante di quel volto, né del disagio che il suo sguardo prolungato
gli aveva provocato.
Agitò una mano sopra la testa
come per scacciare quel pensiero, e un ghigno sarcastico gli si dipinse sul
volto, mentre pensava tra sé e sé a quanto era stato stupido a farsi prendere
dal panico, e non fermarsi nemmeno a salutare. Del resto quell’apparizione
continuava a ripresentarsi nella testa, come se l’immagine di lei fosse rimasta
impressa sulla tela della sua mente.
Senza rendersene conto aveva percorso
tutta la via, e a pochi metri intravedeva già il vialetto di casa sua. Vi era
venuto ad abitare qualche anno prima, quando la sua inclinazione alla pittura
l’aveva portato a scegliere la via dell’arte. Il giorno in cui aveva comunicato
al padre la sua volontà di frequentare l’accademia di Oslo, egli non aveva
esitato ad affittargli una piccola casa di periferia, e a promettergli il suo
aiuto economico per sostenere i suoi studi. Credeva fermamente nelle capacità
del figlio, e Arthur dal canto suo sentiva di avere dentro di sé una vena
creativa quasi inestinguibile.
Gli era piaciuta fin da subito
quella casa: sorgeva alla fine di una via senza uscita, lontana da altre abitazioni
quanto bastava per procurargli una sensazione di isolamento e tranquillità, e
su due lati le pareti in mattoni erano quasi interamente coperte dal fitto
intreccio di un rampicante dalle foglie color scarlatto.
Appena richiusa la porta di casa
dietro di sé si lasciò inebriare dall’odore di pigmenti freschi e olio di lino,
gettò su una sedia cappotto e cappello, e si buttò disteso sul divano per
chiudere gli occhi e richiamare alla mente l’immagine del quadro al quale
avrebbe presto dato forma. Ma la testa gli diventò all’improvviso pesante, ed
il sonno lo colse senza che lui potesse opporvi alcuna resistenza; quando
riaprì gli occhi la luce del giorno inondava già la stanza.
Decise che avrebbe passato
l’intero giorno a dipingere, preparò la tela ed i colori con gesti lenti e
accurati, come se si trattasse di un antico rituale da svolgersi con estrema
riverenza. Si apprestava a replicare un’opera del suo Maestro, e non si sarebbe
arreso finché non fosse stata perfetta ai suoi occhi.
Lavorò per molte ore di fila,
mentre sulla tela prendevano forma due sagome avvinghiate l’una all’altra, avvolte
da una pesante ombra scura. Ma non si trattava di un abbraccio: piuttosto di
una forma di dominazione, in cui la donna sembrava voler divorare e fagocitare
l’indifesa sagoma dell’uomo, succube del suo sortilegio. Il vampiro, così si intitolava l’opera.
Finì nel tardo pomeriggio di
agitare il pennello in preda ad una frenesia nervosa che non si era placata mai
nel corso delle numerose ore di lavoro, ma quando si allontanò per contemplare
l’opera finita il suo volto tradì immediatamente il senso di insoddisfazione.
Il respiro gli si fece d’un
tratto affannoso ed iniziò a mordicchiarsi le dita ancora sporche di colore.
Poi i pensieri cominciarono ad uscirgli dalla gola in sussurri concitati:
<<Non ci siamo…Non c’è vita. La
forma è perfetta, ma manca il dramma…il dramma dannazione!>>.
Camminava avanti e indietro continuando a rimuginare tra sé: <<Manca il sangue, ecco, sì: questa donna è
solo il riflesso sbiadito di un vampiro! Deve essere per via di quel rosso così
smorto…>>.
Se ne convinse a tal punto che i
suoi pensieri si tradussero istantaneamente in uno scatto d’ira: afferrò un
coltello e in pochi secondi lacerò la tela fendendola in più punti, per poi
gettarla in un angolo polveroso della stanza.
Promise a sé stesso che prima di
rimetter mano al pennello avrebbe cercato un modo di fare suo quel soggetto,
tanto quanto bastava per essere in grado di renderlo vivo e palpitante sulla
tela. Negli anni passati aveva letto moltissime storie curiose a proposito di
vampiri, spaziando da saggi semi-seri sull’origine storica del vampirismo, a
romanzi patinati in grado di rendere estremamente affascinanti quelle creature
demoniache.
Non si può dire che ne fosse
ossessionato, ma di certo nutriva per i vampiri una passione non indifferente,
e che, adesso che si accingeva a dipingere un quadro che li riguardasse,
diventava quasi un peso che lo costringeva a ricercare più che mai la
perfezione. Si convinse di dover indagare la sensazione autentica dell’atto
vampirico, per poterlo ricreare in maniera convincente sotto forma di linee e
colori.
Il giorno dopo era nuovamente
sull’autobus che conduceva alla città. Aveva con sé solo un taccuino per
appunti ed una penna, ed era diretto alla vecchia biblioteca cittadina, che
tanto gli piaceva per quell’odore di chiuso, di polvere e di aria stantia, che considerava
segno tangibile dell’antichità del luogo. Essendo un posto poco frequentato,
sarebbe potuto rimanere a leggere in santa pace nella penombra dei grandi
scaffali per tutto il tempo necessario.
Dopo qualche ricerca prese una
serie di libri e li sparpagliò sul tavolo, iniziò poi a sfogliarli con uno
sguardo febbricitante, alla ricerca di qualche passaggio particolare che
potesse servirgli da spunto e ispirazione. Un pendolo scandiva rumorosamente il
passaggio del tempo, ma Arthur non se ne curava: restava chino sulle pagine
ingiallite, assorto nella lettura, scribacchiando di tanto in tanto qualche
frase sul suo taccuino.
Ad un certo punto gli occhi gli
si illuminarono: alzò lo sguardo dal libro e si appoggiò allo schienale
espirando lentamente. Passò una mano tra i capelli arruffati mentre fissava un
punto indistinto di fronte a sé, annuendo compiaciuto al flusso dei suoi pensieri.
Aveva trovato la descrizione perfetta del bacio di morte: la sete insaziabile
di sangue e di vita del carnefice, l’oblio e l’estasi della vittima, il tutto
mischiato in un unico sublime momento.
Socchiuse le palpebre, rilassando
il volto nella serenità di quel momento di conquista, e nel buio di un istante
gli si parò dinnanzi l’immagine di quella strana donna, come se risalisse
direttamente dal magma indistinto del suo inconscio, per qualche preciso ma
ignoto motivo. Pensò con disarmante naturalezza che gli sarebbe piaciuto
rivederla.
Quando uscì era già sera, trasse
una profonda boccata d’aria pura, e si avviò per le strade del centro penzolando
la testa ad ogni passo, guardandosi intorno con aria serena. Quando passò di
fronte alla vetrina di una piccola galleria d’arte che attirò la sua attenzione
arrestò il passo, e con il naso schiacciato sul vetro e la schiena leggermente
curva si mise ad osservare uno ad uno i quadri esposti. Quando contemplava
qualcosa che gli piaceva era solito perdere totalmente il contatto con la
realtà anche per lunghi minuti, e così successe anche quella volta, non fosse
che i rintocchi di campane della vicina chiesa lo riportarono coi piedi per
terra.
I suoi occhi smisero allora di
mettere a fuoco ciò che stava al di là della vetrina, ed in quel momento si
accorse del suo stesso riflesso sul vetro. Ne derivò un brontolio seccato per i
capelli fuori posto, che però si arrestò bruscamente lasciandolo con la bocca
aperta ed una mano sospesa a mezz’aria: spostando leggermente lo sguardo aveva
realizzato che vicino alla sua sagoma riflessa sul vetro ve n’era un’altra.
Una donna dai capelli rossi, quella donna.
Lo sgomento che lo prese in
quell’istante gli fece scivolare da sotto il braccio il taccuino degli appunti.
Si chinò goffamente per raccoglierlo, lasciandosi sfuggire qualche
imprecazione, e quando si rialzò, voltandosi in direzione della ragazza, lei
non c’era più. Cercò con lo sguardo in ogni direzione tra i volti dei passanti,
ma fu tutto inutile: sparita. Il cuore iniziò ad accelerare i suoi battiti, ed
Arthur si stupì del senso di angoscia che lo attanagliò al petto, mischiandosi
ad un irrefrenabile desiderio di rincorrerla ovunque lei fosse.
Appena fu a casa decise che
doveva fissare l’intuizione avuta quel giorno, e scelse il metodo più rapido ed
immediato che conosceva: prese un pezzo di carboncino e tracciò segni grossi e
corposi su un foglio bianco. Poi sentì le forze venirgli meno, e la vista
annebbiarsi come quando i fumi dell’alcol pervadono la mente. Barcollando
attraverso la stanza raggiunse il letto, e lasciò che il sonno si impossessasse
di lui.
Era ancora notte inoltrata quando
si svegliò di soprassalto, soffocando un grido in gola e mettendosi repentino a
sedere sul letto. Restò per qualche istante con gli occhi sbarrati a fissare il
vuoto, mentre avvertiva la sensazione delle gocce di sudore che gli solcavano i
lati del volto. Aveva dormito poche ore, ma di un sonno agitato, pervaso da
incubi ai quali il ricordo non poteva più dare forma. Solo un’immagine
rammentava ancora perfettamente: aveva sognato Lei. Giaceva nuda a cavalcioni sul suo corpo disteso, sovrastandolo
come una Lilith predatrice; la testa reclinata all’indietro lasciava cadere i
lunghi capelli sulle spalle, le labbra cremisi si socchiudevano in un gemito,
ed i suoi occhi serrati non lo fissavano, come se lo sguardo volgesse
all’interno. Impossibile decifrare quell’espressione enigmatica, sospesa in un
indefinito confine tra sofferenza ed estasi.
Arthur sentiva di desiderarla con
tutto sé stesso, e mentre quell’immagine inebriava ancora la sua mente, un
flusso di sangue caldo gli attraversò il corpo, in un brivido di piacere fisico
che era destinato a rimanere inappagato. Doveva trovarla, o sarebbe diventata
la sua ossessione.
L‘indomani passò molte ore a fare
schizzi a carboncino di cui non era mai pienamente soddisfatto. L’insofferenza
cresceva smisuratamente, in maniera proporzionale al tempo che passava chiuso
tra quelle quattro mura, così nel tardo pomeriggio decise di prendere con sé il
libro che l’aveva ispirato, ed uscì per una lunga camminata.
Si diresse al molo, costeggiando
la linea della marea a passi incerti tra le rocce sulla riva, respirando a
fondo l’aria fredda e salmastra. Raggiunto il punto in cui la visuale era delle
migliori si sedette e approfittò delle ultime luci del giorno per sfogliare una
volta ancora quelle pagine ingiallite. Poi, quando il sole iniziò ad affondare
nel mare, levò lo sguardo all’orizzonte e rimase con il viso appoggiato al
palmo della mano, rimirando il cielo distante. Era così totalmente assorbito
dai suoi pensieri che non si accorse del buio ormai sopraggiunto. Non c’era
quasi più nessuno nei dintorni, e il silenzio era rotto soltanto da qualche
folata di vento unita all’infrangersi delle onde poco più in là.
Per un attimo gli sembrò di
fluttuare in un tempo dilatato a tal punto da annullarsi e svanire in
un’immobilità artefatta, svuotata da ogni anelito di vita. Si sentì come se il
suo essere fosse sospeso nel nulla, sempre in procinto di cadere, ma mai in
grado di toccare il fondo.
<<Nefasti pensieri…>> borbottò tra sé, cercando di scacciarli via
con un deciso scossone della testa.
<<Cosa può turbare la mente di un uomo di fronte a una natura che offre
uno spettacolo tanto meraviglioso?>> - La voce era profonda e
carezzevole come il suono di una melodia incantatrice, ed era una voce di
donna.
Girò la testa lentamente, con
molta cautela, come se temesse ciò che gli occhi potevano trovare alle sue
spalle, una volta che avesse visto cosa c’era nel punto dal quale proveniva la
voce.
Non appena la scorse non seppe
trattenere un lieve sussulto, e la visione ravvicinata di quella creatura lo
rapì a tal punto che rimase a fissarla inebetito, dimenticando la domanda che
gli era stata posta.
Lei sedeva poco dietro, avvolta
nel pesante cappotto nero: rannicchiata sopra una roccia teneva le gambe
raccolte al petto, e il suo sguardo era puntato all’orizzonte. Non lo guardò
nemmeno un istante, poi continuò a parlare, come se poco le importasse di avere
un interlocutore o meno: <<Trovo
che certe visioni possano togliere il fiato. Ci sono così poche cose per cui
valga la pena vivere>>. Arthur sentì che qualsiasi cosa avesse
cercato di dire in risposta non poteva far altro che rovinare la preziosità di
quel momento, così si limitò ad annuire, continuando a guardarla, e sentendo
crescere dentro di sé il desiderio che quegli occhi si volgessero verso di lui.
La ragazza si strinse nelle
spalle come se un brivido improvviso le avesse percorso la schiena, guardò
ancora per qualche attimo gli ultimi bagliori violacei nel cielo, poi volse lo
sguardo in basso, e indicò il libro abbandonato sulle rocce a fianco del
giovane: <<Cosa leggevi?>>
Il suo sguardo interrogativo si
posò subito dopo su Arthur, che scosso da quella domanda si schiarì goffamente la
voce, e con un sussurro rispose semplicemente: <<Un libro sui vampiri>>. Ebbe in replica una risata
cristallina che lo lasciò interdetto. Ma si fece coraggio e provò a continuare
il discorso, nel modo più banale che ci fosse: <<Credi che siano stupidaggini, eh?>>. La ragazza scosse
lievemente il capo in segno di diniego.
Era di una bellezza sconcertante,
e il suo viso così chiaro e levigato le dava l’aspetto di una bambola di
porcellana. <<Credo che sia insito
nella natura dell’uomo il bisogno di dominare, inghiottire le sue prede,
risucchiare tutto ciò che lo circonda e che, nell’atto del possedere, lo fa
sentire più potente. Nutrirsi di vite per scongiurare la morte, per ostinarsi a
calcare il suolo di questa terra infernale. C’è qualcosa di diabolico,
inebriante, ed allo stesso tempo profondamente triste nell’essere un vampiro…>>.
Arthur bevve ogni parola che
usciva da quelle perfette labbra cremisi, trattenendo il fiato fino a che lei
non si zittì. Non aveva mai pensato al vampirismo in quella prospettiva, e la
semplicità con cui quella ragazza ne parlava lo colpì non poco. Stavolta però
non fu in grado di replicare nulla, e rimase ammutolito.
Forse lei volle toglierlo
dall’imbarazzo, o forse più banalmente non le interessava oltre quel discorso,
in ogni caso, con un rapido balzo scese dalla roccia su cui sedeva e si
avvicinò a lui fino a essergli così vicino da fargli sentire chiaramente il
profumo dei suoi capelli. Con disinvoltura scostò una ciocca vermiglia dal
volto, e accennando un lieve sorriso gli porse la mano: <<Io sono Eike>>.
Le labbra di Arthur ripeterono quel
nome silenziosamente, nel desiderio di assaporarne ogni lettera. <<Arthur>> rispose
semplicemente, stringendo con delicatezza la mano che gli veniva offerta:
candida, morbida, e fredda, come la prima neve che scende d’inverno.
Poi le propose di restare con
lui, per fargli compagnia in quella notte in cui le stelle lontane lo facevano
sentire più solo che mai. Lei acconsentì, e si incamminarono lungo la riva, in
direzione del quartiere del porto.
Lunghi silenzi accompagnarono lo
scricchiolare dei loro passi sul selciato, e le furtive occhiate di Arthur alla
ragazza non sembravano metterla per nulla a disagio. Giunti in una piazzetta,
animata dal vociare della gente che si radunava nei locali e nelle taverne
affollate e fumose, il giovane pittore si fece coraggio e tentò un invito a
cena.
Eike scrollò le spalle senza
nemmeno guardarlo, e con sufficienza rispose che lo avrebbe accompagnato, ma
che non voleva nulla da mangiare. Arthur era fin troppo entusiasta
dell’assenso, che non si curò d’altro; la condusse a una vicina taverna meno
affollata delle altre, dove poterono sedersi a un tavolino appartato, alla
debole luce di una lampada ad olio.
Il giovane si sentiva pervaso da
uno strano entusiasmo che lo rendeva goffo ed agitato in qualsiasi cosa
facesse, ma Eike non sembrava curarsene: lo osservava con aria tranquilla, e i
lineamenti del suo viso non si contraevano o deformavano mai se non
impercettibilmente. La bellezza della sua pelle candida era disarmante, ma ciò
che colpiva maggiormente di lei era l’enigmaticità dello sguardo, unita alla
fissità di un volto che appariva quasi perfetto agli occhi del giovane esteta.
Arthur ordinò una cena abbondante, e la divorò con foga, sotto lo sguardo della
ragazza che si limitò a sorridergli di tanto in tanto, tenendo tra le mani un
calice di vino rosso dal quale traeva lente sorsate. Anche lui bevve, così
tanto che dimenticò la timidezza e si lasciò andare in lunghi discorsi
sull’arte e sulla vita.
Quando uscirono per prendere una
boccata d’aria fresca e passeggiare in direzione del faro, continuò a parlare
soltanto lui. Eike semplicemente lo ascoltava ed annuiva, mostrando un
interesse discreto e mai invadente. A volte la sua fronte si corrugava
impercettibilmente, ed aveva l’aria di seguire i discorsi del giovane, ma allo
stesso tempo di pensare a mille altre cose. Quando Arthur si accorse di averla
sommersa di parole provò a scusarsi, ma lei lo rassicurò: <<Parla ancora. La tua voce mi fa compagnia, e
voglio sapere tutto di te>> .
Quella sera si congedarono al
faro, ma fu solo l’inizio di una serie di notti che si succedettero uguali a sé
stesse: ogni sera Arthur si recava al molo per osservare il sole morire, e dopo
ogni tramonto lei arrivava, bella e misteriosa come la prima volta che l’aveva
vista.
Non mangiò mai: si limitava a
bere il calice di vino e ad osservare il suo compagno. Dopo ogni cena si
avvicinavano alla riva, e illuminati dal chiarore lunare percorrevano la
banchina, a ridosso del mare che nella notte del nord appariva scuro e profondo
come un abisso.
Arthur parlava per ore: le
raccontò tutto di sé, delle sue esperienze, delle sue passioni, e di tanto in
tanto si lasciava trasportare da riflessioni su cose più grandi di lui, alle
quali lei rispondeva sempre con qualche frase concisa ed enigmatica. Una volta
provò ad insistere affinché anche lei raccontasse qualcosa di sé, ma si rese
conto che di fronte a quella richiesta la ragazza eresse un muro impenetrabile.
Così rinunciò all’idea di far altri tentativi in tal senso, sentendosi
rinfrancato dal solo potersi dissetare al calice squisito della sua presenza.
In quei giorni il furore creativo
si impadronì del giovane: creò decine di schizzi e di tele in cui ripeteva lo
stesso identico soggetto, ma negli stili e nelle pose più diverse. Ovviamente
era lei la sua ossessione, lei che appariva in ogni quadro.
L’idea di Eike era come una
febbre che si era impadronita di lui, e dilagava nel suo cervello espandendosi
a macchia d’olio, tessendo trame intricate che rendevano ogni suo pensiero
prigioniero di un incantesimo ineffabile. Era ammaliato a tal punto che
null’altro lo appagava nella vita, se non la vista di lei; e quando non la
poteva vedere, durante il giorno, trovava nell’arte l’unico sfogo che potesse
servirgli da cura.
Succube di questa situazione,
poco a poco iniziò a perdere il contatto con la realtà. Gli capitava di
chiedersi chi fosse realmente quella creatura che lo teneva legato a sé come in
uno strano sortilegio: divino o infernale, non avrebbe saputo dirlo.
Dominava con la sua presenza ogni
ora della sera, con la sua assenza ogni ora del giorno, e con la sua essenza
onirica ogni notte. Arthur dormiva sempre meno, e nel poco sonno che gli era
concesso non faceva altro che sognare due sole cose: quella donna e quel
quadro, l’unico rimasto ancora incompiuto.
Nello stato febbricitante in cui
si trovava, giorno dopo giorno si convinse che ci doveva essere un legame tra
le due cose. Il suo istinto percepiva che c’era qualcosa di tanto sublime in
lei da renderla innaturale, e un bisogno ancestrale di comprendere più a fondo
la faccenda si impadronì di lui, tanto che decise di fare qualcosa. La sera
seguente la invitò a casa sua.
Quella mattina Eike si era
svegliata come ogni giorno alle prime luci dell’alba. Si era vestita di fretta
ed era uscita a comprare il pane e la frutta al mercato. Poi, una volta
rincasata, aveva svolto le solite faccende domestiche, finché dalla stanza di
sopra giunsero i primi lamenti: si era svegliata.
Si precipitò nella camera da
letto ancora buia, e scostò leggermente le tende per far entrare un debole
raggio di sole, poi si accostò al letto, e con voce rassicurante diede il
buongiorno alla sorella. La fragile creatura che sprofondava nelle pesanti
coperte si era ammalata di tubercolosi qualche settimana prima, ed ora appariva
gracile e tremante, costretta in un letto ad attendere la sua fine. Il viso
smunto ed inespressivo recava ancora un pallido ricordo della bellezza che un
tempo animava quel volto, una bellezza che si rifletteva in Eike come in uno
specchio.
La malattia della sorella l’aveva
turbata profondamente, tanto che aveva smesso improvvisamente di parlare e di
toccare cibo. Questo scatenava le ire di sua madre, che già sconvolta per la
malattia di una figlia, non desiderava certo perdere anche l’altra. Ma nella
situazione in cui si trovava era costretta a fare durissimi turni di lavoro, non
potendo quindi seguire le figlie che durante il giorno lasciava a casa da sole,
affidando ad Eike la cura della sorella degente.
In tanta sofferenza la ragazza
aveva trovato un solo modo per distrarsi, la sera, quando la sorella si
addormentava e lei poteva finalmente uscire. Le piaceva ammirare nel silenzio
della notte la bellezza del cielo che la sovrastava con la sua immensità,
facendole dimenticare per un attimo tutto quel che l’affliggeva. E da quando
aveva incontrato Arthur si sentiva meno sola: lui le piaceva così tanto che
aveva persino ripreso a parlare.
Anche quel giorno, simile a tanti
altri, giunse al termine, e appena la sorella si addormentò Eike corse a
prepararsi: l’attendeva una serata speciale. Pettinò con cura i lunghi capelli
rossi, indossò l’abito più bello, ed uscì per le strade illuminate dai lampioni
in una notte senza luna.
<<E’ la casa in fondo al viale, quella coperta di vite rossa, non puoi
sbagliarti>> - Così le aveva detto Arthur, e seguendo le sue
indicazioni ci arrivò.
Lui l’attendeva trepidante, colmo
della sublime agitazione che pervade la mente alla vigilia di qualsiasi evento
importante. Nel pomeriggio si era dedicato a riordinare il caos della sua
dimora, disponendo con ordine lungo le pareti della stanza tutti i quadri che
il suo estro aveva partorito in quegli ultimi giorni, i giorni segnati
dall’ossessione di lei. Aveva poi preparato un tavolo disponendovi qualche
fiore, e due calici di vino rosso. Infine si era appostato sul balcone,
rimanendo in attesa della sua ospite.
Il cielo si era già fatto
completamente buio quando lei arrivò. Arthur la accolse con estrema ospitalità
e cortesia, la invitò affabilmente a togliersi il cappotto e a sedersi al
tavolo. Ma lei rimase immobile al centro della stanza, quasi sopraffatta e
stordita dalla presenza di tutti quei quadri che la ritraevano: dovette avere
la sensazione di trovarsi al centro di un salone di specchi.
Allora lui la prese delicatamente
per un braccio e la accompagnò vicino alle tele, per mostrargliele una ad una.
Si infervorava ed alzava a tratti la voce, colto dall’entusiasmo nel raccontarle
la storia di ogni quadro, del come era nato e come l’aveva dipinto.
Lasciò per ultima l’opera in
fondo alla sala, quella che da troppo tempo ormai restava incompiuta. Quando
gliela mostrò notò sul volto della ragazza un lieve sorriso d’intesa, che gli
fece capire che aveva riconosciuto il soggetto. Alternando lo sguardo tra la
tela ed Eike gesticolava tentando di spiegarle il suo turbamento, dovuto al
fatto che a quel quadro mancava sempre qualcosa.
<<Manca l’amore>> - disse lei, e le parole le uscirono dalla
bocca come se involontariamente parlasse sovrappensiero.
<<Ti sbagli>> - la apostrofò lui, parandosi davanti al quadro
ed afferrandola per entrambe le braccia. <<Manca la morte apparente, quella che precede la rinascita eterna! Manca
il banchetto di dolore e di vita!>>.
Negli occhi di Arthur si accese
d’improvviso uno sguardo allucinato e sconvolto. La sua voce si era fatta più
roca e quasi distorta, e l’ombra che si proiettava sul quadro alle sue spalle
lo rendeva ancora più spaventoso. Eike non proferì parola, ma iniziò ad
indietreggiare, tenendo lo sguardo fisso su quegli occhi che ora le sembravano
appartenere ad uno sconosciuto.
Ma lui la incalzò facendosi
sempre più minaccioso: <<Porta a
compimento il tuo sortilegio! Fammi tuo! Fammi vivere la suprema estasi, così
che io possa dipingere il mio capolavoro. Cosa aspetti? Mordimi!!>>.
Il volto della ragazza, che fino ad allora non aveva mai mostrato alcun eccesso
di sentimento, si contrasse improvvisamente in una smorfia di terrore. Scrollò
violentemente le spalle per liberarsi dalla presa dell’uomo, ed iniziò ad
indietreggiare scuotendo nervosamente la testa, fino a trovarsi imprigionata
dalla ringhiera in ferro del balcone, inciampando nei tralci di vite.
L’ira del giovane non fece che
crescere a dismisura di fronte a quel rifiuto. Nella follia che accecava la sua
mente in quel momento, non sapeva più come trattenere gli spasmi del suo animo
malato, ricolmo di un eccesso di desiderio impossibile da appagare.
In un istante le fu addosso e la
afferrò per la gola. Con un gesto brutale le scostò la testa di lato: non
avrebbe sopportato oltre quello sguardo fisso su di lui. Poi si avventò con
ferocia sul quel collo esile e candido, mordendo con tutta la bestialità di un
animale affamato.
Sentì la carne lacerarsi sotto i
denti, e il sapore del sangue accarezzargli il palato; ma il corpo di lei si
agitava negli spasmi, e allora strinse più forte le mani attorno al suo collo,
così forte che finalmente lei cedette. Il corpo della ragazza si abbandonò
totalmente al suo abbraccio, e appena lui lasciò la presa cadde in un tonfo
sordo al suolo.
Solo allora Arthur si accorse che
gli occhi della ragazza erano sbarrati, senza vita, e che da un lato delle sue
labbra usciva un rivolo cremisi, che le percorreva la guancia fino a svanire
confondendosi tra il vermiglio dei suoi capelli, intrecciati ai rami di vite
scarlatta.
La vista di quel sangue gli
riempì gli occhi in un’ebbrezza sensoriale disarmante.
Ora poteva finalmente dipingere
il suo quadro.
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