"Do asilo dentro di me come a un nemico che temo d’offendere, un cuore eccessivamente spontaneo che sente tutto ciò che sogno come se fosse reale; che accompagna col piede la melodia delle canzoni che il mio pensiero canta, tristi canzoni, come le strade strette quando piove."
"Forse sono l’uomo con le leggendarie quattro mani Per toccare, per curare, implorare e strangolare. Ma io non so chi sono, e tu ancora non sai chi sono..." F. R.
Qualche stella si affacciava timida nel cielo ricamato di sottili nuvole scure, brillando debolmente attraverso le distanze. Il
buio della notte inghiottiva i contorni del paesaggio circostante,
lasciando solo vagamente intuire un orizzonte lontano e arbusti
oscillanti nella brezza notturna. La lunga strada deserta sembrava
non portare in nessun luogo, eppure le luci artificiali in lontananza
richiamavano l’attenzione su di una qualche meta verso cui tendere.
Quando
M. si sentì male era notte fonda. Non c’erano piazzole di sosta in giro
sulla statale, così optammo per un vialetto qualsiasi per fare una
sosta. Nessuno di noi si era accorto che in quella casa una finestra
era illuminata nonostante l’ora. Nessuno di noi aveva scorto una figura
venirci incontro fino a quando non sentimmo la sua voce chiedere cosa
volessimo.
Improvvisamente percepii la mia mente scuotersi per
liberarsi dal torpore della stanchezza e del sonno, e concentrai meglio
l’attenzione sul casolare in fondo al vialetto. Non era una casa
qualsiasi: cadeva in pezzi e qualche stanza sembrava esser stata rimessa
in sesto alla meno peggio. Quel tanto che bastava per poterci stare
dentro. Quel tanto che permetteva a quell’uomo dal viso consumato e
lo sguardo diffidente di usarla per un qualche appuntamento sospetto.
“No, è che aspettavo gente.” Poche parole per poi andarsene e tornare ad essere una sagoma scura proiettata dalla luce contro i muri interni. Guardai
l’ora e capii che eravamo finiti in mezzo a qualcosa di decisamente
losco. Ma la macchina era già in moto e ce ne stavamo andando il più in
fretta possibile.
Per liberarmi dal senso di inquietudine che mi
aveva pervaso feci una qualche battuta stupida a proposito del ricordino
che gli avevamo lasciato sul vialetto. Poi la notte tornò ad essere
intensa ed avvolgente, e la linea della strada l’unica cosa su cui
focalizzare l’attenzione.
Non so quanto tempo passò, ma una
volta arrivati nel parcheggio vicino casa il sonno si era fatto
decisamente insistente. La sbronza di M. stava facendo il suo corso e la
fase di catalessi era proprio quel che non ci voleva in quel momento. Non vedevo l’ora di poter salutare tutti e riabbracciare il mio cuscino.
Invece
il tempo continuò a dilatarsi in un’attesa che ci tenne ancora lì,
tutti insieme attorno a lui collassato su un marciapiede, mentre intorno
il quartiere deserto sembrava colto da un sonno profondo. Non
ricordo cosa stessi dicendo o facendo quando mi portai la mano alla
tempia sentendomi pervasa da una sensazione di giramento ingiustificato.
Ma ricordo perfettamente tutto quel che accadde dopo.
Uno
sbattere d’ali frenetico, moltiplicato decine di volte, creò un
frastuono che ci fece alzare di scatto lo sguardo verso il tetto del
palazzo accanto: una miriade di pipistrelli prese il volo e si disperse
nel giro di pochi secondi, proiettando un’ombra scura e terrificante
sopra le nostre teste.
Rimasi attonita a fissare quel preciso angolo di cornicione e giurai che si stesse muovendo. Per quanto rapida possa essere l’elaborazione di informazioni nella mente umana, il boato fu più veloce. Non
era un rumore qualsiasi, era un suono sordo, cupo, terribile. Ci
attraversò in pochi secondi risvegliando le più ataviche paure. Non era un rumore, era la lugubre voce dell’antica terra che si scuoteva.
Riuscii solo a pronunciare, lentamente, “terremoto”.
Ma la mia voce fu sovrastata dall’urlo della ragazza che terrorizzata
scappava in strada, cadendo poi in ginocchio raggomitolata su se stessa,
come se l’aperto cielo nero potesse proteggerla.
Guardai di
nuovo il palazzo: aveva smesso di muoversi, e cominciava costellarsi di
luci che una dopo l’altra si accendevano. Una sinfonia di fastidiosi
allarmi prese il posto del boato di poco prima, ma l’odioso suono che
producevano non sarebbe bastato a dimenticare “quel” rumore.
Deglutii
lentamente e mi mossi dal punto in cui ero rimasta fino ad allora,
incapace di reagire in un qualsivoglia modo. Gettai uno sguardo intorno:
qualcuno in pigiama vociava sommessamente agli angoli delle strade,
alcuni tipi loschi uscivano dalla penombra e se ne andavano chissà dove,
con l’aria circospetta dello sconfitto che cerca una via di fuga.
Lentamente
tutto tornò alla normalità, e le strade deserte furono nuovamente
quelle di sempre. Ma quel rumore mi rimase in testa, e per tutta la
notte cercai di immaginare come potrebbe essere l’urlo della natura alla
fine del mondo.
***
Questo per dire che mi è parso di
vivere tutto come se stessi guardando le scene di un film, o leggendo
qualche pagina di un romanzo prima di addormentarmi. E’ stata una lunga e strana giornata, costellata di piccole stranezze e diverse sventure messe in fila l’una dopo l’altra.
Influsso
di Saturno che fa capolino nel cielo di questo maggio? In quanta parte
gli astri riescono a far sentire il loro ascendente su questa terra e su
ognuno di noi, minuscoli ammassi della stessa primordiale polvere di
stelle?
Ci sono domande che mi piace pormi ma alle quali non voglio risposte. Il piacere sta nella sospensione dell’interrogativo. E
come non pensare a tutti quegli invasati che diffondono teorie sulla
fine del mondo, a Melancholia e al rumore assordante della fine di
tutto? Come non pensare che la natura sia la più tremenda forza
creatrice e distruttrice mai esistita, e che sia selvaggia, indomita e
bellissima? Che le si perdonerebbe tutto, anche la violenza che
distrugge, perché lei è la vita stessa, perché lei è più antica e
sublime di tutti noi stupidi parassiti.
Quel che so per certo è
che è stata una lunga giornata, piena di piccoli inquietanti preludi che
hanno portato a far sì che seguisse un’altrettanto lunga nottata,
conclusasi con un finale memorabile. In pochi istanti ho realizzato
l’essenza del terrore che si prova di fronte al sublime, e la
vulnerabilità della mente umana di fronte alla paura.
A voler
trarre conclusioni pragmatiche, ho anche realizzato che l’estasi del
sublime è decisamente meno utile della paura (leggasi: almeno la paura
fa scappare lontano).
Ma per alleggerire la questione, c’è da
dirsi che quella sera c’era il concerto reunion dei Bleed in Vain dopo
ben dieci anni dallo scioglimento. E per forza che poi capitano le
catastrofi. >.<
Per
fortuna è stato un gran concerto, o meglio, personalmente me lo son
goduto parecchio, ritrovando la ragazzina esaltata che più di dieci anni
fa li ascoltava. A dirla tutta le piaceva pure il cantante, ma
quella è un’altra storia! (-> la ragazzina era enormemente sfigata e a
veder metallari giovini e baldanzosi le prendeva l’affanno)
Comunque!
Ci son cose più importanti da dire. Per esempio che c’è stato un altro
concerto degli Algol venerdì scorso. E che concerto! Tutti i fior
fior di locali metal e pseudo-alternativi della zona possono bellamente
andare a pascolare in confronto al mitico baretto di Badia Polesine! Ok, all’inizio la situazione non sembrava così rosea, ma quel che inizia male a volte migliora.
L’arrivo
alla location è stato folgorante: piazza di paese con due baretti che
si fronteggiano, la fazione “a lato della chiesa” e la fazione “ma
questo all’inizio doveva essere un bar metal”. Ciò che li accomunava
era in ogni caso l’altissima percentuale di simil-truzzi in giro.
Simil-truzzi da non sottovalutare, dato che giudicare dall’aspetto, in
quel frangente, si è rivelato assai sbagliato.
Scongiurato
il pericolo di dover suonare dalla parte dei “cesaroi” è arrivato il
turno della sfida per la conquista del territorio. I nostri prodi
musicisti hanno dovuto cacciare dalla sala gli avventori fanatici di
slot machines e calcetto, riuscendo a colonizzare lo spazio utile per
sistemare la strumentazione.
Nonostante
l’odio imperituro dei vecchietti abitué, le truppe dei metallari hanno
mantenuto il dominio del luogo, mettendo in scena un super concerto coi
fiocchi, convertendo gente del luogo, facendo avvicinare persino i
truzzi, e godendo della performance di ballo di un nonnetto sprint
assolutamente memorabile!!
Bilancio
della serata? Più che positivo! Magari in tutti i locali ci si
divertisse così, avendo un’acustica ottima e pure un cachè
considerevole! Bar Campo rulez!!
A seguire le immancabili foto! ^_^
p.s.
Grandissimi anche i Nighmare Slave, sanno decisamente come tenere la
scena e coinvolgere il pubblico, il tutto suonando egregiamente!
p.p.s. ho dimenticato di parlare delle pareti fuxia ovunque, ma questo perché sono ancora sconvolta.
p.p.s.
la mia foto più kitsch della storia è quella su sfondo fuxia con
cagnolino in spalla. Lui si chiamava Petrus e voleva stare solo ed
esclusivamente attorno al collo del suo padrone in stile sciarpetta. Per
qualche arcano motivo gli piaceva fare la sciarpina pure su di me.
Adorabile!