~ ..la Volpe Funambola ammazzaprincipi.. ~
~ Fragile ~

"...Sometimes it feels it would be easier to fall
than to flutter in the air with these wings so weak and torn..."

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- EviLfloWeR -

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Lunacy Ph

"Do asilo dentro di me come a un nemico che temo d’offendere,
un cuore eccessivamente spontaneo
che sente tutto ciò che sogno come se fosse reale;
che accompagna col piede la melodia
delle canzoni che il mio pensiero canta,
tristi canzoni, come le strade strette quando piove.
"

- F. Pessoa -

~ REMEDY LANE ~

- We’re going nowhere...All the way to nowhere –



"Forse sono l’uomo con le leggendarie quattro mani
Per toccare, per curare, implorare e strangolare.
Ma io non so chi sono,
e tu ancora non sai chi sono..."

F. R.

venerdì 24 giugno 2011

...imparo a vedere...

Tuesday, January 15, 2008 - ore 22:19


Vi è mai capitato di sentire un libro chiamarvi? Proprio come se da quelle pagine inanimate e appesantite dall’inchiostro potesse giungere una voce, ma una voce che non parla come siamo abituati a intendere noi le parole. Difficile sentirla se non si è mai imparato ad ascoltare, a percepire quel linguaggio muto che parlano le cose quando ci stanno intorno per lungo tempo.
Non mi capitava da così tanti anni…Scoprire quella perfetta simbiosi, quell’intimo appagamento arrivata alla fine di ogni pagina. Ho lasciato che mi chiamasse per molto molto tempo, l’ho ignorato, ho rimandato…l’ho certamente sottovalutato. Adesso è tra le mie mani, come il bene più prezioso che posseggo. E lo amo.
Ho letto altre opere di Rilke negli anni trascorsi, ammirandolo con riverenza e distacco. Ma questi diari sono tutt’altra cosa, questi diari mi ubriacano. Ogni parola, pezzo dopo pezzo, delinea una forma così ben scolpita in ogni suo dettaglio, una forma che riempie a perfezione quel vuoto che io ancora mi porto dentro. Ogni parola, ogni singola parola, vorrei averla scritta io. Forse potrei averla scritta io.
Se solo il tempo e lo spazio non esistessero, vorrei correre a bussare alla sua porta: <<Piacere Rainer, sono Malte. Ti ho cercato così a lungo…>>



“[…] i versi, ahimé, significano così poco, se scritti presto. Si dovrebbe aspettare a farne, raccogliere saggezza e dolcezza per una vita intera, una vita lunga, se possibile, per riuscire forse, alla fine, a scrivere dieci righe che sono buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno abbastanza presto), sono esperienze. Per un solo verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna sentire come volano gli uccelli, e sapere i movimenti con cui i piccoli fiori s’aprono il mattino. Bisogna poter ripensare a cammini in contrade sconosciute, a incontri inattesi, e ad addii che si vedevano da tanto in arrivo, a giorni dell’infanzia ancora inesplicati, ai genitori che dovevamo amareggiare quando ci portavano una gioia che non capivamo, a malattie infantili, che cominciavano in modo così singolare, con mutamenti tanto gravi e profondi, a giorni in stanze quiete e raccolte, e a mattini sul mare, al mare, ai mari, a notti di viaggio che frusciavano via alte e volavano con tutte le stelle – e non è ancora abbastanza, bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di donne con le doglie, e di bianche, lievi puerpere addormentate, che si chiudono. Ma occorre anche essere stati vicino a moribondi, essere stati seduti accanto a dei morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori che entrano a folate. E non basta neppure avere ricordi. Bisogna saperli dimenticare, quando sono molti, e attendere, bisogna avere la grande pazienza di attendere che tornino. Perché neppure i ricordi sono ancora esperienze. Solo quando essi diventano in noi sangue, sguardo, gesto, anonimi e indistinguibili da noi, soltanto allora può succedere che la prima parola di un verso, in un’ora rarissima, s’alzi ed esca dal loro centro.


(Rodin - pensatore)


“[…] L’ho già detto? Io imparo a vedere. Sì, incomincio. Va ancora male. Ma voglio profittare del mio tempo. Che non mi sono mai reso conto, per esempio, di quanti visi ci sono. Di uomini ce n’è una quantità. Ma di visi molti più, perché ogni uomo ne ha parecchi. Ci sono persone che portano un viso per anni, è naturale che lo logorino, diventa sporco, cede nelle pieghe, si sforma come un guanto calzato in viaggio. Persone econome, semplici, non lo cambiano, non lo fanno neppure pulire. << Va abbastanza bene >> affermano, e chi può loro provare il contrario? Certo ci si domanda, poiché hanno parecchi visi, che ne faranno degli altri. Li mettono da parte. Li porteranno i loro figli. Ma accade pure che con quei visi escano i loro cani. Perché no? Un viso è un viso.
Altre persone mettono i loro visi con rapidità eccezionale, uno dopo l’altro, e li consumano. Pensano sulle prime di averne per sempre, ma non sono ancora ai quaranta: ecco l’ultimo. Naturalmente ciò ha il suo lato tragico. Non sono abituati a risparmiare visi, dopo otto giorni l’ultimo è finito, ha buchi, in molto punti è sottile come carta, e a poco a poco affiora il sottofondo, il nonviso, e loro camminano con quello.
Ma la donna, la donna: era sprofondata tutta in sé, in avanti, nelle sue mani. Era all’angolo di Notre-Dame-des-Champs. Appena l’ebbi vista, cominciai a camminare più piano. Quando i poveri pensano, non bisogna disturbarli. Può darsi che trovino.
La strada era troppo vuota, il suo vuoto si annoiava e mi toglieva il passo sotto i piedi, risuonando con esso, là e qua, come con uno zoccolo. La donna si spaventò e si sollevò via da sé troppo presto, troppo rapida, e il viso le rimase tra le due mani. Potei vederlo posato là dentro, la sua forma vuota. Mi costò uno sforzo indescrivibile fermarmi alle mani, non guardare quanto s’era strappato da esse. Inorridivo nel vedere un viso dall’interno, ma ben altro terrore avrei provato davanti alla testa nuda, piagata, senza viso.”

Rainer Maria Rilke – I quaderni di Malte Laurids Brigge



Seguo il giovane Malte mentre percorre le vie di Parigi, con passo svelto e la mente assorta. Quasi sussulto con lui, quando ad un angolo lo sorprende l’indicibile, e lo sovrasta fino ad annientarlo. Gli cammino affianco ed ho paura, perché so che anche lui ha paura; so che in ogni cosa, per quanto piccola ed insignificante, può annidarsi quel qualcosa di inspiegabile. E so che lui percepisce il mondo come me, so che siamo soli entrambi in questa malattia, ma seguo i suoi passi, e ciò mi rassicura.
Percorro le vie parigine proprio come facevo anni fa, quando mi muovevo maldestra alle spalle di Baudelaire, e respiravo l’aria malsana di quella città, l’odore del vino, delle prostitute, dei malati, delle carogne. E vedevo tutto come dipinto su una tela dalle tonalità fosche e pesanti…vedevo e vivevo. Non avrei mai voluto uscirne…
Portavo i Fiori del male sempre con me, ovunque andassi. Quel libro sgualcito, in edizione economica, mi seguiva dappertutto, quasi fosse il mio vangelo privato. Stava nella borsa insieme all’altra presenza costante della mia vita: il taccuino degli appunti. Perché in fondo non si sa mai, e chi può dirlo quando si presenta quell’attimo divino in cui dalla punta della penna sembra uscire non più stupido inchiostro, ma vero nettare poetico? Già, chi può dirlo…io ancora aspetto.
E i fiori del male adesso stanno lì in bella vista, in camera mia, come un trofeo che non mi appartiene. Mi è capitato qualche volta di pensare di comprarmi un’edizione di quelle costose, di quelle davvero belle da esibire, ma non sarebbe lo stesso. Quel libro usurato, con i segni sulle pagine e la copertina sbiadita, ha pieno diritto di rimanere lì, rigonfio di tutta la vita che porta con sé. Perché gli oggetti assorbono tutto di noi, anche ciò che noi trascuriamo.
Devo scrivere, altrimenti le pareti della mia stanza cederanno.




(Radiohead - Street spirit)

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