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Lunacy Ph

"Do asilo dentro di me come a un nemico che temo d’offendere,
un cuore eccessivamente spontaneo
che sente tutto ciò che sogno come se fosse reale;
che accompagna col piede la melodia
delle canzoni che il mio pensiero canta,
tristi canzoni, come le strade strette quando piove.
"

- F. Pessoa -

~ REMEDY LANE ~

- We’re going nowhere...All the way to nowhere –



"Forse sono l’uomo con le leggendarie quattro mani
Per toccare, per curare, implorare e strangolare.
Ma io non so chi sono,
e tu ancora non sai chi sono..."

F. R.

venerdì 24 giugno 2011

La camera chiara

Tuesday, February 19, 2008 - ore 00:04


(Berengo-Gardin)

Decisi di assumere come punto di partenza della mia ricerca solo poche foto: quelle che ero sicuro esistessero per me. In questa controversia tra la soggettività e la scienza maturai un’idea bizzarra: avrei tentato di formulare, a partire da alcuni umori personali, la caratteristica fondamentale, l’universale senza il quale la Fotografia non esisterebbe.

Spesso sono stato fotografato. Non appena io mi sento guardato dall’obiettivo tutto cambia: mi metto in atteggiamento di “posa”, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine. Io sento che la fotografia crea o mortifica a suo piacimento il mio corpo, […] e questa dipendenza io la vivo nell’angoscia di una filiazione incerta: la mia immagine sta per nascere: come sarò? Avrò l’aspetto d’un individuo antipatico o quello di un tipo in gamba? Ah, se solo potessi “riuscire” sulla carta come sulla tela d’un quadro classico. Ma siccome ciò che vorrei che si captasse è una delicata testura morale e non una mimica, e siccome la Fotografia, salvo nei casi dei grandi ritrattisti, è poco sottile, io non so come agire dall’interno sulla mia pelle.
Io vorrei insomma che la mia immagine, mobile, sballottata secondo le situazioni, le epoche, fra migliaia di foto mutevoli, coincidesse sempre col mio “io”; ma è il contrario che bisogna dire: sono “io” che non coincido mai con la mia immagine: infatti, è l’immagine che è pesante, immobile, tenace, e sono io che sono leggero, diviso, disperso.



Per vedere bene una fotografia è meglio alzare la testa o chiudere gli occhi. La fotografia dev’essere silenziosa, la soggettività assoluta si raggiunge solo in uno sforzo di silenzio (chiudere gli occhi è far parlare l’immagine nel silenzio). La foto mi colpisce se io la tolgo dal solito bla-bla: “tecnica”, “realtà”, “reportage”, “arte”, ecc.: non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il particolare risalga da solo alla coscienza affettiva.




La foto è letteralmente un’emanazione del referente. Da un corpo reale, che era là, sono partiti dei raggi che raggiungono me, che sono qui; la foto dell’essere scomparso viene a toccarmi come i raggi differiti di una stella. Una specie di cordone ombelicale collega il corpo della cosa fotografata al mio sguardo: benché impalpabile, la luce è qui effettivamente un nucleo carnale, una pelle che io condivido con colui o colei che è stato fotografato. Forse è per questo che non amo affatto il colore, ho sempre l’impressione che sia un’intonacatura apposta successivamente sulla verità originaria del Bianco-e-Nero.



Bisogna dunque che io mi arrenda a questa legge: io non posso approfondire, penetrare la fotografia. Posso solo esplorarla con lo sguardo, come una superficie immobile. La fotografia è piatta, in tutti i significati della parola: ecco cosa devo per forza ammettere. A torto la si associa, data la sua origine tecnica, all’idea di un passaggio oscuro (camera oscura). Bisognerebbe invece dire camera lucida, infatti, dal punto di vista dello sguardo, l’essenza dell’immagine è di essere tutta esteriore, senza intimità, e ciononostante più inaccessibile e misteriosa dell’idea dell’interiorità; di essere senza significato, pur evocando la profondità di ogni senso possibile; non rivelata e tuttavia manifesta, possedendo quella presenza assenza che costituisce la seduzione e il fascino delle sirene.



L’aria è l’ombra luminosa che accompagna il corpo, e se la foto non riesce a palesare quest’aria, allora il corpo va avanti senz’ombra, e una volta che quest’ombra sia stata separata dal corpo, non resta altro che un corpo sterile. E’ per mezzo di questo sottile cordone ombelicale che il fotografo dà vita; se, per mancanza di talento o per disavventura, egli non sa dare all’anima trasparente la sua ombra chiara, il soggetto muore per sempre.




Roland Barthes - La camera chiara

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